Chiesa rupestre di San Nicola

( )

La Chiesa rupestre di San Nicola

A sud-est di Mottola, in località Gorgone presso la masseria di Lamaderchia, lungo l’antica via Consolare che rappresenta un diverticolo medievale della via Appia, sorge il fiore all’occhiello delle Mirabili Grotte di Dio Mottolesi, la chiesa rupestre di San Nicola,  così denominata da Charles Diehl che nel 1894 per primo la descrisse, oggetto per secoli della devozione degli abitanti del luogo, nonchè dei Crociati e dei pellegrini che si recavano a Taranto e Brindisi dalle regioni interne per imbarcarsi verso la Terra Santa.

La bellezza dei suoi affreschi, ripuliti una prima volta nel 1972 e restaurati nell’agosto del 1989, dopo il furto vandalico di alcune teste delle icone murarie, l’hanno fatta definire la Cappella Sistina della civiltà rupestre nel Meridione d’Italia. In verità, in questa chiesa rupestre ci troviamo di fronte alla più completa e stupefacente pinacoteca dell’arte sacra popolare pugliese, che riesce ad evidenziare compiutamente le testimonianze degli svariati influssi teologici ed artistici di marca orientale e latina, a cavallo di quasi quattro secoli di Medioevo.

La chiesa si trova sul ciglio della gravinetta ed è possibile accedervi attraverso scale ricavate nella roccia ed adattate dalla recente struttura in ferro predisposta dalla Sovraintendenza. Una lunetta a doppia ghiera sormonta la porta della cripta e su di essa sono visibili tracce di decorazione dipinta di una figura nimbata a mezzo busto.

Una grande nicchia erosa occupa la facciata esterna a sinistra, mentre in alto a destra si nota una calotta affrescata  e sovrastante una tomba ad arcosolio, resto di un insediamento funerario medievale che mostra anche le tracce di altre tombe. L’affresco rappresenta una simbolica  Crocifissione di Cristo e dei ladroni e mostra tre croci latine, due delle quali piccole ed una più grande al centro, ed è attribuibile alla prima metà del IX secolo, quando ad Otranto e nell’Italia Meridionale si registrò una forte presenza di vescovi iconoclasti. Questo affresco an-iconico – che non riproduce quindi le sembianze umanizzate di santi o divinità, bensì la croce, tema tra i più rappresentati della pittura iconoclasta – insieme alle girali presenti nella chiesa rupestre di Santa Margherita è dunque collocabile fra le più antiche testimonianze artistiche della Puglia altomedioevale, subito dopo i mosaici tardo antichi di Santa Maria della Croce a Casaranello (V secolo) e gli affreschi d’epoca longobarda della chiesetta di Seppannibale, presso Fasano (VIII secolo).

Quello di San Nicola si può definire un santuario ipogeo del tipo cruciforme inscritto, e l’impianto arcaico di tipo altomedioevale ha fatto ipotizzare confronti con le chiese siriache del VI secolo, soprattutto per la divisione dell’aula in tre navate di due campate a mezzo di due soli massicci pilastri. Recentemente è stata segnalata la estrema somiglianza con la planimetria della già citata chiesetta longobarda di Seppannibale. Si tratta di un invaso a croce latina con sviluppo longitudinale e presenta una netta divisione tra aula o naos e presbiterio o bema,  ancora oggi definita dai resti bene conservati di quella che era l’originaria iconostasi, tipica dello schema bizantino, segnata dai cancella (muretti). Il naos, ovvero lo spazio del tempio destinato ai fedeli, è diviso in tre navate di cui la centrale risulta il doppio di quelle laterali, che secondo alcuni studiosi potrebbero essere state scavate in un secondo momento; tutto intorno all’aula, lungo le pareti  e alla base dei pilastri corrono i subsellia (sedili), alti per lo più 40 cm.

Altri elementi che caratterizzano l’invaso sacro sono la decorazione delle pareti laterali ornate con dodici stasidia (nicchie) incavate nella roccia e con ghiera, l’ampiezza del varco iconostatico, l’abside rettangolare piatto sul fondo con resti di altare di tipo greco monolitico e i due altari di tipo latino addossati alle absidiole laterali nel bema, la prothesis ed il diaconicon; il soffitto con coperture estremamente variabili (tetto a doppia falda, volta semicilindrica a tholos e a vela), il presbiterio che ha profondità pari alla lunghezza delle navatelle laterali.

Gli affreschi della chiesa rupestre di San Nicola


Subito a sinistra dell’ingresso è rappresentato San Giuliano (l’Ospedaliero o il Parricida) che regge nella destra una lancia di cui si vede solo l’estremità superiore (probabile XIV secolo). Venerato per la sua carità, è protagonista di una leggenda molto popolare nel Medioevo. Un cervo, da lui colpito a morte, gli predice che sarà l’assassino dei propri genitori. Atterrito fugge di casa e sposa una nobile, ma i genitori si mettono alla sua ricerca e giunti al castello dove egli vive vengono ospitati dalla donna, che li riconosce e cede loro il proprio letto nuziale per riposarsi. Al ritorno dalla caccia Giuliano trova occupato il proprio letto e, credendosi tradito, reagisce violentemente, uccidendo quelli che poi scoprirà essere i suoi genitori. Sconvolto dal misfatto si dedica alla penitenza e alla carità, e costruisce lungo la riva di un fiume una casa ospedaliera per viandanti. Una sera trasporta da una riva all’altra un lebbroso che risulterà essere Gesù, il quale gli assicura il perdono.

Nel sottarco che introduce alla navatella sinistra troviamo affrescata Santa Lucia con il capo ornato da un diadema, che veste una tunica ricamata ed ha nella mano destra la crocetta e la sinistra a palmo aperto sul petto, simboli del suo martirio che avviene durante la persecuzione di Diocleziano. Giovane e ricca siracusana vissuta nel III secolo, in un pellegrinaggio a Catania presso il sepolcro di Sant’Agata avrebbe ottenuto la grazia della guarigione della madre. Distribuì i suoi beni ai poveri e per questo fu accusata dallo stesso fidanzato di essere cristiana. Sarebbe stata condannata alla prostituzione, ma rimasta incolume da questa ignominia e dal rogo, venne uccisa con la spada. E’ quasi sempre rappresentata con l’attributo del calice contenente i suoi occhi poichè, secondo la leggenda, la Santa li avrebbe strappati per allontanare da lei definitivamente il fidanzato. La datazione del dipinto è da attribuirsi alla fine XII-inizio XIII secolo.

Sempre in questo sottarco, proveniente dal Martirologio della Chiesa orientale,  è effigiata Santa Pelagia in ricchi abiti bizantini, con l’omophorion ricco di gioielli. Secondo la tradizione orientale l’appena quindicenne Pelagia, di nobile famiglia antiochena, per sfuggire ad una tentata violenza carnale si suicidò dopo aver pregato Dio, gettandosi dal tetto della sua casa. In Occidente, invece, Pelagia era considerata una pubblica peccatrice, tanto bella e così adorna di gioielli da aver indotto il santo vescovo Nerone al pianto, nel considerare il suo zelo verso Dio molto inferiore a quello che mostrava Pelagia nell’adornarsi e nel piacere agli uomini. In seguito una predicazione l’avrebbe così colpita da indurla alla conversione e alla vita eremitica. Anche questo affresco sembra risalire alla fine del XII-XIII secolo.

E’ seguito da una Vergine con Bambino, risalente probabilmente al XIV secolo, che ricorda molto nel segno grafico una celebre Madonna del Medioevo pugliese, quella Madonna di Ripalta ancora oggi intensamente venerata nella Daunia. Sempre a questo periodo dovrebbero appartenere gli altri affreschi custoditi negli stasidia della navatella sinistra. Nella prima nicchia della parete sinistra è visibile San Pietro, che qui è rappresentato in atteggiamento benedicente, vestito con tunica scura e mantello drappeggiato sulla spalla sinistra, mentre tiene con la sinistra le due chiavi del Regno dei Cieli ed un rotolo aperto dove si legge la dichiarazione da lui resa sulle rive del lago di Tiberiade ‘Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente’. A sinistra in basso vi è un graffito rappresentante un guerriero, probabilmente un Crociato.

L’affresco che segue rappresenta il giovane diacono San Lorenzo, che indossa una lunga dalmatica, tipica veste liturgica a maniche corte portata dai diaconi, decorata a losanghe e perline. Il nimbo è  perlinato, e si nota sul capo la chierica diaconale, tipica tonsura fatta agli ecclesiastici. Con la sinistra, oltre a reggere la mappa, sostiene una specie di cofanetto che potrebbe essere la ‘borsa del tesoro’. Diacono della chiesa romana, secondo la tradizione nacque in Spagna e venne arso vivo sulla graticola per non aver consegnato ai carnefici i supposti tesori della Chiesa, che per Lorenzo erano i poveri.

Segue la raffigurazione di San Basilio in abiti episcopali, con il lembo estremo del pallio crociato – l’omophorion, sopravveste che gli antichi Greci e Romani indossavano sulla tunica – che scende sul braccio sinistro mentre con entrambe le mani regge un libro posto di traverso sul petto. San Basilio detto ‘il Grande’,  nato in Cappadocia, spese tutte le sue forze per sconfiggere le eresie – tra cui l’arianesimo che negava la Trinità e di conseguenza la divinità di Gesù Cristo – nonchè a difendere i punti fondamentali della dottrina cattolica. Viene considerato il fondatore del monachesimo in Oriente.

Subito dopo un raro affresco, di cultura bizantina, la Vergine con Anapeson, cioè con il Bambino insonne che prevedendo la morte non può addormentarsi, ispirato da un passo della Genesi (XL, 8) “Giuda, catello di leone; dalla nascita tu crescesti, figlio mio; insonne giacesti, come leone e come catello di leone che svegliato non va”. La Vergine, con il capo delicatamente inclinato verso il Figlio e con espressione di pietà per la sua sofferenza, siede su un trono decorato sopra un cuscino ricamato. Il suo manto presenta molteplici pieghe, ottenute da fini ombreggiature alternate a lumeggiature; su un lembo di stoffa è posato il Bimbo, avvolto in un lieve velo, benedicente con il rotolo stretto nella manina e con un grande nimbo crucifero. Anche lo sgabello ove la Vergine posa i piedi è decorato con foglie di acanto. La evoluzione iconografica di questo modello di Vergine è conosciuta in occidente sotto il nome di Madonna del Perpetuo Soccorso. Anche questo affresco è datato al XIV secolo.

Di fianco, sempre al Trecento è databile una prima raffigurazione di San Nicola, benedicente alla greca, che ha l’aureola gialla con cerchio rosso punteggiato di bianco. La casula (manto) è rossa, il vestito sottostante azzurro. L’omophorion è bianco con croci nere, a forma di forcella. Nella mano sinistra ha un libro. Ha fronte spaziosa e rugosa, incorniciata dai capelli corti e lisci, il naso dritto e sottile con la barba grigia e corta, come pure i baffi. La sua espressione è ascetica e severa. In basso l’iscrizione deprecatoria del committente, quel Sarulo che già abbiamo incontrato in una analoga iscrizione nella cripta di Santa Margherita “Meme(n)/to D(omi)ne / famv/lo tvo / Sarulo sacerdote”. Nato a Patara, in Licia, nel 270 circa, figlio unico di fervente famiglia cristiana, Nicola  ben presto esercitò carità e pietà. Divenuto vescovo di Myra in Turchia, al tempo delle persecuzioni di Diocleziano soffrì il carcere per Cristo e partecipò al Concilio di Nicea  contro la dottrina ariana: forse per questo l’iconografia bizantina lo rappresenta a fianco di San Basilio e San Gregorio. Seppellito a Myra e fatto oggetto di venerazione profonda, nel 1087 il suo corpo fu trafugato e trasportato a Bari, a quanto pare su ‘commissione’, da marinai baresi.

Entrando nel bema dalla stessa navatella sinistra, nel sottarco sono affrescati cinque medaglioni. In quello centrale è rappresentata un’aquila ad ali spiegate e negli altri quattro delle figure femminili a mezzo busto, vestite con ampie ‘imatie’ dai bordi perlinati, con la mano destra protesa nel gesto dell’orante e la sinistra reggente una lampada; quelle a sinistra hanno la lampada accesa e la iscrizione PRU/DENTES, le due di destra hanno la lampada spenta e sono indicate con il termine FATUE. La datazione proposta è fine XII-XIII secolo, mentre l’artista – secondo alcuni studiosi – potrebbe essere lo stesso che ha affrescato i due Arcangeli nel bema della cripta e le icone di Santa Parasceve, Santa Pelagia e Santa Lucia, probabilmente un frescante greco o greco-siculo proveniente da Monreale, al termine dei lavori di edificazione della basilica normanna. Il tema è raffigurato prevalentemente dall’arte sacra occidentale, ed è qui rappresentato in modo abbastanza raro ed inconsueto da un artista di cultura greca, soprattutto per la riproduzione delle Vergini, rappresentate in medaglioni. Si tratta della parabola delle Vergini prudenti e stolte, che hanno le labbra serrate a chiavistello, con le sbarre verticali molto marcate quasi a voler dire che la prudenza vuole le labbra ben chiuse, rimandando al Salmo: <<Poni Signore, una custodia alla mia bocca; sorveglia la porta delle mie labbra…>>. Il Regno dei Cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, andarono incontro al loro sposo. Cinque di esse erano stolte e presero le lampade ma non l’olio; cinque altre, ben più sagge, insieme alla lampade presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poichè lo sposo tardava, si addormentarono. A mezzanotte arrivò lo sposo, ed esse svegliatesi prepararono le lampade. Ma le stolte chiesero alle sagge dell’olio poichè le loro lampade si erano spente. Le vergini sagge risposero che non potevano darne, altrimenti sarebbero anch’esse rimaste senza olio e consigliarono  loro di andarlo a comprare. Mentre le stolte andarono via a procurarsi l’olio arrivò lo sposo, le vergini che erano pronte entrarono nella casa e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le stolte e bussarono per poter entrare, ma lo sposo rispose che non le conosceva, e disse: “Vegliate dunque, perchè non sapete nè il giorno nè l’ora”. La parabola è associata al tema dell’ingresso al regno dei Cieli: le Vergini, prese nel loro complesso, rappresentano tutta la Chiesa; al momento del risveglio dal sonno della morte (Giudizio Finale e Resurrezione) del Regno dei Cieli faranno parte, e in maniera definitiva, soltanto coloro che avranno l’olio, avranno cioè esercitato la carità.

Una volta nel bema, a sinistra, entro una ricca cornice decorata con gigli, troviamo l’immagine di San Michele “Archistrategos”, capo supremo delle schiere angeliche. L’Arcangelo è qui rappresentato olosomo (a figura intera), leggermente poggiato sulla gamba sinistra; su di un chitone blu, visibile nel braccio destro, indossa uno sticharion (tunica) di colore rosa con pieghe rosse, sul quale si avvolge il loros color ocra, decorato da un motivo di quadrati al cui centro vi sono quattro perline disposte alternativamente a croce e a fiori. Il volto è tondeggiante, con occhi grandi e con lo sguardo rivolto verso destra, mentre i capelli ricadono nel senso inverso. Ha la bocca a coda di rondine, carattere tipico della rappresentazione bizantina, e dal capo, adorno di un piccolo diadema e di un nimbo perlinato, fuoriescono due sottili nastri. Nell’insieme la rappresentazione esprime maestà, sicurezza e forza, e le ali spiegate ben rendono un senso di protezione. Stringe nella mano destra una lancia terminante a croce ed ha nella sinistra il sigillum con il criptogramma “Gesù Cristo vince”. L’affresco, di notevolissima fattura,  sembra permeato della cultura coloniale tardo-comnena, presentando da una parte significativi elementi di stilizzazione lineare e dall’altra elementi di libero modellato e di uso sfumato dei colori che già preludono allo stile pittorico che si affermerà sotto la dinastia degli imperatori Paleologi (a partire dalla metà del XIII secolo). La datazione dell’opera è fine XII-primi XIII secolo.

Una pittura dai caratteri maggiormente occidentali, in cui confluiscono la cultura figurativa cassinese e campana ed ancora gli elementi bizantini ed autoctoni che caratterizzano l’arte pugliese nella seconda metà del XII secolo, è illustrata dalla rara Visione di Santo Stefano, dipinta sull’altare latino decorato che campeggia nell’absidiola sinistra. L’opera è ispirata al passo degli Atti degli Apostoli relativo al martirio del diacono, in cui Cristo appare a Stefano per benedirlo ed accoglierlo nel Regno. Santo Stefano, col volto proteso in intensa espressione, è in ginocchio ai  piedi del Pantocratore nella posizione dell’offerente e viene accolto nel Regno. Il Redentore regge un libro in cui si legge “Io sono la luce del mondo”. Sull’esterno dell’archeggiatura sono dipinti due Exaptergia, ovvero due gruppi di sei ali rosse di cherubini, che sono i tradizionali simboli medievali dell’ingresso al Paradiso. Il nome Stefano significa ‘coronato’, ed egli fu uno dei sette diaconi scelti dagli apostoli nonchè il “protomartire”, il primo seguace di Gesù in ordine di tempo a essere martirizzato violentemente in testimonianza della fede in Cristo. Diacono di Gerusalemme, molto stimato dalla primitiva comunità cristiana ellenistica per le sue doti di pietà, fede, sapienza, grazia e fortezza, operava prodigi e segni grandi fra il popolo, predicando calorosamente Gesù fra i Giudei. Entrato con questi in aperto contrasto, fu denunciato al Sinedrio con l’accusa di aver bestemmiato contro Mosè e il tempio. L’autodifesa di Santo Stefano fu appassionata, ma venne ugualmente lapidato. Iconograficamente è rappresentato giovane, senza barba, con stola e dalmatica diaconale.

Nell’ampio abside centrale, di forma rettangolare e a fondo piatto, campeggia la monumentale e preziosa raffigurazione bizantina del Pantocrator in Deesis. Il Cristo è raffigurato nella semi-lunetta a mezzo busto, ed ha una grandezza molto maggiore e volutamente accentuata rispetto alle figure olosome della Vergine e del Precursore. La separazione dei personaggi è sottolineata dall’uso di una larga fascia rossa che isola in un riquadro curvilineo il Pantocratore. E’ il tipico schema bizantino: Cristo ha il nimbo crucifero, il volto severo, allungato, capelli scuri, espressione dura. E’ rappresentato nella triplice funzione di Demiurgo (artefice divino che forgia il mondo), Salvatore ed infine come severo Giudice, ovvero come colui che era stato temuto, più che amato, alla fine del Primo Millennio, quando si attendeva la scomparsa del mondo. La mano destra, in atteggiamento allocutorio, benedice alla greca e tiene un libro aperto dove si legge in greco “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre”. Anche le iscrizioni esegetiche relative alle tre figure sacre sono in lettere greche. Il Cristo ha tunica blu e manto rosso, come pure la Vergine. Le due figure laterali della Vergine e San Giovanni Battista appaiono austere e severe. Il Precursore veste una tunica rossa e porta sopra di essa, drappeggiato, un manto blu; ai piedi ha i sandali. Così come nella Vergine, si deve notare l’accuratezza con cui sono rese le mani, tese a chiedere l’intercessione: entrambe poggiano sul petto, l’una un po’ più alta dell’altra. Le aureole sembrano tracciate col compasso, sono perlinate secondo la maniera greca, ed in più quella di Cristo è crucifera. Il colore di fondo è costituito da una tinta unica di blu-grigio, tipico nell’arte bizantina. La maestosa composizione ricalca modelli arcaici ed è sicura espressione della cultura pittorica provinciale comnena, forse di influenza cipriota-palestinese, nella fase di trapasso dallo stile neoclassico e lineare allo stile dinamico e serpentino proprio del periodo medio-conclusivo dell’arte comnena (metà del XII secolo).

Al di sotto dell’affresco è presente il moncone di un altare di tipo greco, discostato dal muro. Secondo una ipotesi formulata recentemente, originariamente c’era un altare a blocco più alto addossato alla parete di fondo (infatti il Pantocratore è raffigurato a mezzo busto), quindi la celebrazione avveniva col volto del sacerdote rivolto ad Oriente, come in molte chiese paleocristiane. In una seconda fase di rioccupazione bizantina, post-longobarda e pre-normanna, sarebbe stato dipinto l’affresco della Deesis, databile alla fine dell’XI secolo, e l’altare sarebbe stato tagliato e scostato dal fondo, in modo che il sacerdote potesse officiare secondo la liturgia bizantina. Nella successiva fase benedettina, sarebbe stato ricavato il gradino ai piedi dell’altare per officiare secondo il rito occidentale.

Nell’abside destra è raffigurata la Dormizione (o transito) di San Giovanni Evangelista, rappresentato nel suo sarcofago, dove entrò sentendo la morte ormai vicina. Infatti l’Evangelista è associato costantemente a Pietro, e viene con lui imprigionato, flagellato e considerato una delle colonne della chiesa. Arrestato durante la persecuzione di Domiziano, fu sottoposto al supplizio dell’olio bollente ma ne uscì indenne. Accusato allora di magia, fu esiliato nell’isola di Patmos da dove in seguito ritornò per morire di morte naturale, ormai ultracentenario. Infatti qui è rappresentato come un vecchio con barba e capelli bianchi, con gli occhi e le mani rivolte in atto di contemplazione, e fra le nubi si vede uscire una mano benedicente alla greca. Lateralmente è visibile un altare coperto da un drappo rosso, sormontato da una croce. Anche quest’affresco è ispirato da un testo agiografico, ovvero dalla celebre Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, risalente al XIII secolo. Essa narra che negli ultimi giorni di vita San Giovanni Evangelista, dopo una visione del Signore, fece scavare una fossa quadrata vicino all’altare. Discese poi nella fossa e stese le mani verso il cielo chiedendo con tutto il cuore di essere accolto alla mensa del Signore. Finito di pregare, fu avvolto da una luce folgorante e nessuno riuscì più a vederlo. Quando la luce scomparve la fossa era piena di manna (infatti ancor oggi si dice “la manna di san Giovanni”). L’affresco, il cui tema è attestato in genere in ambito occidentale, sembra essere influenzato stilisticamente da motivi tipici della tarda fase comnena, ma si tratta pur sempre – come spesso accade nella iconografia rupestre – di una opera ibrida, opera sicuramente di un frescante greco-apulo, databile alla metà o alla fine del XII secolo.

Ai piedi dell’affresco – che è stato interpretato da taluni autori anche come una Etimasia, ovvero la “Preparazione del Trono”, motivo iconografico di origine orientale che nel Basso Medioevo veniva raffigurato con frequenza nei Battisteri – e del relativo altare latino è presente una piccola fossa, profonda 50 cm., che si ipotizza sia un piccolo fonte battesimale. La buca aveva funzione di “abyssus”: infatti il battesimo avveniva o per immersione o per semi-immersione. C’è chi ha anche ipotizzato che si trattasse una tomba, ma l’iscrizione su entrambi i lati del muretto iconostatico “+ ALTARE S(anc)TI IO(H)ANNEN bAbTIsTA” (Altare di San Giovanni Battista) fa escludere che la buca sia una tomba, anche perchè nel bema di una chiesa di tradizione orientale non ci possono essere sepolture. Secondo una recente e suggestiva ipotesi, il tempio era stato scavato come chiesa paleocristiana con una sola navata centrale, mentre le due navatelle laterali in realtà rappresentavano un tipo particolare di nartece, ovvero una sorta di “corridoio” non consacrato dove era possibile far passare i non battezzati ed i catecumeni, che arrivavano alla fossa del fonte battesimale e vi si immergevano per ricevere il sacramento.

Sempre nel bema abbiamo una ulteriore rappresentazione di San Michele Arcangelo, anch’essa di concezione schiettamente bizantina. Considerato il capo supremo delle schiere angeliche, l’Arcangelo assume in Oriente carattere di divinità pagana; il dipinto è molto simile a quello che si ritrova nel nartece di Sant’Angelo in Formis della fine del XII secolo. L’Angelo è raffigurato di fianco come “guardiano del bema”, d’aspetto severo nella sua giovanile bellezza, in completa armatura come un paladino alato, nell’atto di trafiggere con la lancia il drago e di schiacciarlo col piede calzato con scarpe decorate a punti bianchi. Indossa una tunica rossa, con ampie pieghe, tenuta da un loros, decorato a losanghe e perle, di cui non è visibile la parte superiore, mentre un lembo ricade sul braccio sinistro che sostiene il keramion (comunemente ritenuto un piatto, ma in realtà si pensa raffiguri il pane dell’oblazione), decorato con una croce e l’iscrizione “Cristo vince”. Il volto tondeggiante infonde dolcezza ed è circondato da chiome raccolte sulla nuca da un nastro. Le datazioni proposte dagli studiosi spaziano prevalentemente dalla seconda metà del XII secolo alla fine del XIII secolo.

Nella navata destra segue il primo affresco raffigurante  San Giorgio (fine XIII secolo-XIV). La leggenda narra che egli nacque da nobili genitori cristiani di Cappadocia, fu valoroso soldato e liberò la figlia di un re dal drago. Il suo culto, notevole sin dal IV secolo nell’Oriente bizantino, dove egli è per eccellenza il “grande martire” e il “trionfatore”, si diffuse ben presto in Italia, soprattutto a Ravenna. Le Crociate ne consacrarono l’ulteriore diffusione, mentre numerosi Ordini religiosi e cavalieri si posero sotto la sua guida, con particolare devozione da parte dai Benedettini. Si tratta del Santo tra i più rappresentati e preferiti nel repertorio iconografico rupestre e in questo dipinto si presenta su di un cavallo bianco, indossa un armatura a maglia metallica, regge una lancia con vessillo a tre punte nella mano destra e porta lo scudo a tracolla insieme ad un mantello rosso vivo. Il dipinto nell’insieme è assai rozzo e di fattura piuttosto popolaresca. La figura è ferma in posizione frontale, di colori vivaci e contorni scuri. Si legge inoltre l’iscrizione deprecatoria, che riporta il nome del committente dell’affresco o del suo restauro: MEMENTO / D(omi)NE FA/MVLO TVO / CRISPV/LO.

Nell’altra archeggiatura che segue sulla parete della navata destra vi è un dittico raffigurante San Pietro e San Leone Papa, entrambi in atteggiamento benedicente alla latina e con scritte esegetiche latine. Stilisticamente l’affresco sembra rifarsi alla tradizione pittorica della tarda maniera classicista che si afferma durante la dinastia imperiale dei Macedoni (dal IX alla metà dell’XI secolo), ed è stato datato all’XI secolo, con probabili ritocchi nel corso del XIII-XIV secolo. La figure sono rappresentate olosome, stanti e in posizione frontale. E’ interessante l’accostamento dei due santi, considerati i pilastri della Chiesa Occidentale: San Pietro è il primo vescovo di Roma e San Leone Magno fu colui che lottò contro ogni forma di eresia e contro le invasioni barbariche. L’affresco pare citare la formula acclamatoria con cui fu accolta durante il Concilio di Calcedonia l’epistola di papa Leone: “Pietro ha parlato per bocca di Leone”. Entrambe le figure indossano un nimbo circolare giallo-ocra, e sono scalzi nella tipica rappresentazione di Santi, apostoli, profeti e personaggi biblici. San Pietro è rappresentato con i capelli ricciuti disposti a piccole ciocche di contorno rossiccio, la barba corta e tondeggiante che si differenzia da quella di San Leone che si presenta piccola ed ovoidale e presenta la tonsura, quasi sconosciuta nell’iconografia bizantina prima del XII secolo. San Pietro indossa l’abito apostolico, composto di tunica rossa e mantello verde-bluastro con striature bianche; mentre Leone ha l’abito pontificale, composto da sticharion (tunica) di colore marrone, phaelonion (mantello) di colore rosso-bruno interrotto da omophorion bianco con sottolineature azzurre a tre lunghe croci, epitrachelion verde di cui sono ben visibili i due lacci che pendono a destra e a sinistra della tunica, con pantofole purpuree. Gli attributi che si possono notare riguardo a San Pietro sono la croce astile di tradizione paleocristiana, il rotolo sigillato e le chiavi. Leone, invece, reca un libro semiaperto con copertina decorata, attributo di sapienza. Ai piedi una iscrizione votiva con il nome del committente: ME/M (en)TO / D(omi)NE FA/MV/LO / TVO LEO/NE.

Tra questo dittico ed il seguente vi è, in basso, una immagine ex-voto. Due piccole figure di donne in abiti medievali, con le candele accese, a testimonianza della grande devozione del tempo. Vista l’ubicazione della chiesa, posta quasi sulla strada Consolare, antica via che partendo dall’Appia si addentrava all’interno del territorio, utilizzata nel Medioevo come itinerario più sicuro, in quanto meno esposto al brigantaggio o alle scorrerie dei Saraceni, si può ipotizzare infatti che il santuario rupestre sia stato interessato da un buon flusso di pellegrini in viaggio o di ritorno dalla Terra Santa.

Segue un altro dittico di Santa Elena e Vescovo. La Santa Imperatrice porta una ricca corona e tiene nella mano destra una croce. Il suo abbigliamento, privo delle consuete vesti imperiali, è di tipo occidentale ed il risvolto della veste a fondo bianco pare imitare l’ermellino, appunto di tradizione occidentale. Il Santo ignoto ha il capo scoperto, barba appuntita, ha in mano un’asta, forse un pastorale, e veste il pallio. Di Santa Elena sappiamo che apparteneva ad umile famiglia e che sposò il futuro imperatore Costanzo Cloro, il quale per ragioni di stato la lasciò per convolare a nuove nozze. Ma il suo figliastro Costantino Magno la chiamò a corte, dandole il titolo di Augusta, e le permise di attingere liberamente al tesoro imperiale per dispensare del bene. Pellegrina in Terra Santa, la tradizione la vuole artefice del ritrovamento della Croce e degli strumenti della Passione di Cristo. Tenendo conto di questa tradizione, il Vescovo ignoto potrebbe essere identificato con Ciriaco o Giacomo minore, rispettivamente vescovo di Gerusalemme durante la prima crociata e primo vescovo, sempre, di Gerusalemme, mentre altri lo identificano con lo stesso San Nicola. La datazione proposta dagli studiosi non è concorde, ma pare si possa affermare che gli affreschi siano attribuibili alla seconda metà dell’XI secolo, e successivamente ritoccati o restaurati agli inizi del XIII secolo.

Segue un altro San Giorgio, notevolmente diverso dal precedente per la sensazione di maggior movimento creata dall’affresco, e per questo motivo la sua datazione sembra posteriore al precedente, ovvero risalente alla fine del XIII-XIV secolo. Il cavallo è agile, e viene cavalcato dal giovane guerriero che con l’asta, tenuta nella mano destra, trafigge il drago. Il volto, dolce e sereno, è ornato dal nimbo perlinato. L’unica stonatura è nel capo sproporzionato del cavallo, soluzione forse dettata da problemi di spazio.

Nel primo sottarco a sinistra dell’ingresso è visibile la testa di un Santo monaco ricoperta da un cappuccio marrone triangolare, con nimbo perlinato. Si tratta di San Leonardo da Limoges, figlioccio del primo re cattolico dei Franchi Clodoveo e patrono dei prigionieri, il cui culto, strettamente collegato al fervore devozionale dei pellegrini ed alle vicende crociate, è introdotto in Italia meridionale dai Normanni. Gli viene attribuito, tra l’altro, il miracolo della liberazione di uno dei maggiori capi normanni della I Crociata, il principe di Taranto Boemondo di Altavilla, detenuto dai Turchi in Antiochia nel 1103. L’affresco potrebbe essere stato realizzato tra l’XI ed il XII secolo.

Di fronte ad esso, sempre nello stesso sottarco, vi è la raffigurazione di un altro Santo, anonimo per la perdita delle scritte esegetiche. La figura è rappresentata con lancia e scudo, il che fa pensare ad un santo guerriero, probabilmente San Teodoro (l’affresco è stato più volte citato come  San Sabino, il quale – però – essendo stato Vescovo di Canosa doveva essere raffigurato con abiti vescovili). Stilisticamente il dipinto appartiene alla corrente linearistica, che si affermò nell’arte bizantina nel corso dell’XI secolo.

Proseguendo, sul pilastro troviamo un  San Pietro di alta cifra stilistica, probabilmente opera del pittore della Deesis (o della sua bottega) e databile quindi alla metà del XII secolo. La figura dell’apostolo, che indossa tunica azzurra e manto verde con lumeggiature bianche, è un po’ sproporzionata  per l’eccessiva altezza. Ai piedi dell’affresco vi sono dei graffiti raffiguranti un uomo a cavallo e dei lupi in atto di aggredire. Si tratta di ex-voto, forse per pericoli scampati da pellegrini.

Sul pilastro di fronte al San Pietro troviamo un Santo anonimo con libro, con barba a punta e mano benedicente, da collocarsi cronologicamente nello stesso periodo del probabile San Teodoro. Da notare che le scritte esegetiche di questo Santo erano in caratteri greci.

Continuando verso l’apertura principale del bema, nel secondo sottarco di destra è raffigurato forse il più bell’affresco della civiltà rupestre dell’Italia Meridionale. la celebre e nobile Santa Parasceve dal volto dolcissimo e delicato. Indossa il chitone e il maphorion (manto che avvolge il capo) di colore rosso, è rappresentata olosoma e regge nella mano destra la crocetta del martirio mentre alza la sinistra a palma aperta. E’ una esecuzione raffinata, ricca di lumeggiature, e di finissime stilizzazioni. Il culto di Parasceve o Venerdia (così venne chiamata in Occidente) fu molto in auge nel Medioevo. Orfana di ricchi cristiani, avrebbe venduto i suoi beni e distribuito il ricavato ai poveri. Fu denunciata dai Giudei e avrebbe subito più volte il martirio, ed infine sarebbe morta decapitata. E’ chiamata così dai Bizantini perché  la si credeva nata il Venerdì Santo, giorno appunto di Parasceve. Come abbiamo accennato, nell’affresco si può notare una certa somiglianza di esecuzione in alcuni particolari (labbra a chiavistello, viso tondeggiante e dolce) con i due Arcangeli, la Santa Lucia, la Santa Pelagia e i quattro tondi con le Vergini. Dovrebbe trattarsi dunque della stessa mano o della stessa bottega, ed anche la datazione è comune con le altre opere citate, ovvero fine  XII-inizi XIII secolo.

Sui pilastri che portano al bema abbiamo due affreschi palinsesti. Sulla sinistra troviamo Santo Stefano. Dell’affresco posteriore restano gli occhi, la fronte ed un frammento di iscrizione esegetica. La sua datazione è al XIV secolo, mentre l’affresco più antico dovrebbe risalire all’XI-XII secolo.

Dall’altra parte vi è un affresco di San Nicola risalente probabilmente alla metà del XIII secolo. Nella parte inferiore lo stucco è caduto e si può notare uno strato più antico dove è raffigurato un altro San Nicola. Questo disegno è molto semplice, interpretato con lo stile linearistico tipico della metà dell’XI secolo: il nimbo giallo non è ornato dal cerchio bianco, i capelli sono grigi e corti, la barba è piccola e rotonda e i baffi cadenti; il naso è ritto, le orecchie appuntite, gli occhi grandi danno al volto un’espressione severa; indossa l’omophorion a punta e ornato di croci scure. Si tratta con ogni probabilità di uno dei più antichi affreschi pugliesi che rappresentano il  Santo di Myra. Su questa immagine si sovrappone appena quella più recente, di cui si vede solo la parte superiore. Ciò è però sufficiente per notare come l’artista si sia liberato dagli influssi bizantini per seguire i canoni tipici dell’arte latina. La svolta occidentale si nota anche dall’abbigliamento, ad esempio nell’omophorion bianco con scollo di forma rettangolare, di tipo latino, la cui estremità posteriore è sulla spalla sinistra e scende sul petto.

Ottieni maggiori info oppure prenota la tua visita guidata cliccando su:

Contatti