Il casale rupestre di Casalrotto
L’area interessata dalla documentazione archeologica si estende per circa 6 ettari e mezzo. In particolare, la zona nei pressi della chiesa di Sant’Angelo presenta le caratteristiche tipiche dell’habitat rupestre spontaneo, mentre il resto del casale sembra essere stato concepito in un’ottica urbana più moderna, tipica degli insediamenti abitativi tradizionali. Si tratta di unità abitative a schiera con giardino-ortale anteriore, disposte lungo le curve di livello con andamento chiuso e comunicazione prevalentemente per linee concentriche.
Lo spalto occidentale, caratterizzato da ripiani più larghi e concavi ricchi di terreno vegetale, risulta meno densamente popolato e più utilizzato per gli ortali. Occupa circa 12.500 mq e presenta 46 case-grotta (270 mq per casa-grotta). Nella parte centrale dello spalto si registrano gli ambienti più ampi e capienti ed una maggiore estensione dei giardini-orti.
Lo spalto orientale, maggiormente convesso e poco terrazzato, invece, si presenta più densamente popolato. Si registrano 50 case-grotta sparse su circa 10.000 mq, popolato e più utilizzato per gli ortali. Occupa circa 12.500 mq e presenta 46 case-grotta (270 mq per casa-grotta). Nella parte centrale dello spalto si registrano ambienti più ampi e capienti ed una maggiore estensione dei giardini-orti.
Lo spalto orientale, maggiormente convesso e poco terrazzato, invece, si presenta più densamente popolato. Si registrano 50 case-grotta sparse su circa 10.000 mq, con un’area a disposizione equivalente in media a circa 200 mq.
La presenza dell’acqua era condizione necessaria per la vita di tali insediamenti, e la carenza del prezioso liquido poneva anche dei limiti demografici, così che – come per Petruscio qualche secolo prima – la persistente siccità può essere stata così una delle cause più importanti dell’abbandono del casale. Gli operosi abitanti di queste grotte avevano comunque studiato soluzioni molto intelligenti per convogliare l’acqua piovana in apposite cisterne poste nei pressi delle loro abitazioni. L’azione erosiva dell’acqua permetteva che questa fosse canalizzata e filtrata dalle rocce calcaree. Un esempio di questo sistema di raccolta idrica è evidente nella cripta di S. Margherita, ove due cisterne poste su diversi livelli sono in comunicazione tra loro mediante scanalature lungo le quali defluiva l’acqua in eccesso dall’una all’altra.
Casalrotto: la storia del Monastero di Sant’Angelo e del “Casalis Ruptus”
Tra i villaggi rupestri medioevali dell’Italia Meridionale, Casalrotto è sicuramente quello che più di ogni altro ha subito un’indagine sistematica, sia sulle fonti documentarie che a livello di ricognizione archeologica sul territorio. Il casale è costituito da un centinaio di grotte scavate lungo le due fiancate, orientale ed occidentale della lama, in parte rovinate dagli agenti atmosferici e dai successivi interventi umani, ma che conservano ancora tracce di nicchie, lucerne, vasche, pilastri, mangiatoie, generalmente ancora bene conservate.
Poiché non ci sono pervenute notizie documentarie riguardanti l’Alto Medio Evo, sulla origine dell’insediamento non si possono che formulare delle ipotesi. La più probabile è che il monastero rupestre di Sant’Angelo – nucleo originario del casale – sia stato fondato da religiosi italo-greci, nel corso della seconda colonizzazione bizantina (secoli IX-XI), ma si ipotizza anche una commistione fra la cultura bizantina e quella longobarda. Infatti la dedicazione della chiesa a S. Michele Arcangelo fa subito pensare ai Longobardi, popolo fiero e guerriero che nutriva una particolare predilezione per l’Arcangelo comandante delle milizie celesti, dominatore del male e delle forze della natura. Una particolarità costante del culto micaelico in età longobarda nell’Italia Meridionale è la presenza della grotta, che oltre al celebre esempio di Monte Sant’Angelo, vede molti esempi analoghi sparsi tra Puglia, Basilicata e Campania.
Il toponimo più antico documentato nel XII secolo delle “terrae Sancti Angeli” è Casalis Ruptus, che può significare “Casale rotto”. Ma la forma dialettale Casarutt può anche derivare dal greco “crupte”, latinizzato “crypta”, e non dal medioevale “ruptus”. Per tale ragione alcuni studiosi hanno ritenuto che il termine non stia ad significare “casale rotto”, bensì “case a grotta”.
Le prime notizie storiche certe su Casalrotto sono riportate da una “charta donationis” del 5 maggio 1081, con la quale il normanno Riccardo Senescalco, signore di Mottola e Castellaneta, figlio di Drogone d’Altavilla e nipote di Roberto il Guiscardo, con l’assenso del vescovo di Mottola Giovanni donava al monastero benedettino cluniacense della SS. Trinità di Cava dei Tirreni i monasteri di Sant’Angelo, Santa Caterina e San Vito ubicati nel territorio di Mottola, ed inoltre concedeva tre villani di Mottola con le loro terre per servire il monastero di Sant’Angelo.
La documentazione d’archivio su Casalrotto è davvero abbondante. Un documento del 1099 attesta la donazione alla chiesa di S.Angelo di alcuni beni demaniali da parte di Riccardo Senescalco, sottolineando la politica di rafforzamento dei poteri giurisdizionali dell’abate di Cava sui territori mottolesi.
Casalrotto raggiunge il suo massimo splendore nel XII secolo grazie ad una serie di donazioni e di acquisti che si susseguono anche nel XIII secolo, per cui assume sempre più le caratteristiche del casale, e non solo rupestre. E’ probabile, infatti, che già in questo periodo il monastero venisse spostato in una struttura sub divo realizzata secondo le precise e tassative regole benedettine, che potrebbe coincidere col perimetro della attuale masseria settecentesca. E’ probabile che una nuova chiesa costruita sub divo e dedicata al Santo Angelo sia stata localizzata lì dove attualmente è la cappella della masseria. Si pensa a questa ubicazione poiché in una visita canonica nel 1618 si accenna ad una “chiesa maggiore” non rupestre, dedicata appunto all’Arcangelo, che a quell’epoca fu ritrovata scoperchiata, con due grandi colonne abbattute, una di marmo e l’altra di porfido, e che era posta presso un cimitero di “grande devozione”. Ed infatti nei pressi della attuale chiesa della masseria, in prossimità dell’aia, è stata rinvenuta una vasta ed importante necropoli d’epoca basso medievale.
Tra il 1155 ed il 1165, il priore Campo fece costruire ancora un’altra chiesa sub divo, che venne dedicata a Santa Maria e consacrata dal vescovo Riccardo di Mottola. Le tracce della chiesa di Santa Maria possono essere rappresentate dal tratto di muro, lungo sei metri, posto presso una cripta dello spalto ovest che presenta le tracce di affreschi sacri.
Nel frattempo continuava anche l’attività di escavazione di cripte e cappelle votive nei dintorni del monastero, di notevole fattura architettonica e riccamente decorati da affreschi e tempere, tra le quali sono ancora visitabili quelle dedicate a San Cesario, a Santa Apollonia e a Santa Margherita.
Nel XIII secolo, con una bolla dell’imperatore Federico II del 1231, viene affermata sui territori del monastero, da parte dell’abate di Cava e dei priori di Casalrotto, una autorità pari a quella dei più potenti baroni e dei conti laici. Nello stesso anno alcune sentenze ribadiscono che gli abitanti dei territori del monastero hanno l’obbligo di residenza e devono espletare corvée e servitù in favore del priore di Casalrotto, ed ancora – ad attestare la piena autonomia del casale – una bolla del vescovo Giovanni del 1238 conferma che le chiese di Sant’Angelo e di Santa Maria di Casalrotto sono ormai completamente svincolate dalla giurisdizione del vescovo di Mottola.
Dalla seconda metà del XIII secolo in poi, l’esosa politica fiscale di Federico II e di Manfredi, nonché gli attacchi dei baroni alla proprietà monastica, contribuirono a svuotare progressivamente i casali rupestri del Mezzogiorno delle necessarie energie produttive, determinandone l’impoverimento e la decadenza. La crisi si accentuò sotto il governo di Carlo D’Angiò, il quale per rimpinguare l’erario rese ancor più rigido ed esoso il sistema tributario in territori ormai divenuti sterili ed improduttivi.
Nel 1254 infatti si iniziano ad avvertire i primi sintomi di decadenza del casale, documentati da una bolla del papa Innocenzo IV, nella quale si sconfessano i tentativi di infeudamento dei territori mottolesi da parte dei sostenitori dell’imperatore svevo.
Al 1263 risale la donazione da parte dell’arciprete benedettino Eustasio di Casalrotto all’Abbazia madre di Cava dei Tirreni dell’importantissimo codice ORIGO GENTIS LANGOBARDORUM, redatto da amanuensi di scuola beneventana e risalente probabilmente al 1005, conservato fino allora con molte altre ricchezze nel priorato di Casalrotto. Il Codice è il più importante segnale della presenza longobarda in territorio mottolese, poiché si tratta di una narrazione analitica delle origini di questo popolo (VII secolo) e delle leggi posteriori a Liutprando. La donazione dell’Origo e di svariati altri tesori all’abbazia madre di Cava è indice della ricchezza raggiunta dal monastero mottolese nel XIII secolo, nell’ambito della tradizionale opulenza dei benedettini cluniacensi, ma anche un segnale della grave crisi che stava per abbattersi sul casale.
Una bolla papale confermò nel 1292 i poteri giurisdizionali concessi all’abate di Cava dei Tirreni e al priore di Casalrotto; tale intervento si rese necessario a causa dei continui tentativi di usurpazione da parte dei signorotti di località confinanti.
Il XIV secolo segna un periodo di profonda crisi per Casalrotto, che subisce un progressivo spopolamento. In una lettera del Giustiziere di Terra d’Otranto a Carlo d’Angiò del 1304, si legge che le guerre di successione tra le fazioni angioine e le forti imposizioni fiscali avevano costretto gli abitanti del casale a devastarlo e ad abbandonarlo. Nello stesso periodo un documento del priore Pietro di S. Angelo afferma che nei territori del monastero vi erano ancora circa 30 famiglie. Naturalmente in questo periodo lo spopolamento non toccò solamente Casalrotto, ma anche molte altre zone rurali del Mezzogiorno soprattutto in Puglia, Basilicata, Sicilia e non solo a causa di problemi di natura economica, politica e bellica, ma anche per eventi di natura climatica, dovuti con ogni probabilità alla scarsità di piogge che avevano reso le terre sterili.
Nel 1324 in una “collettoria vescovile” (raccolta di fondi fatta dai preti), il priorato tornava a versare un modesto contributo al vescovo di Mottola, testimoniando così una ripresa della sua autorità episcopale su Casalrotto. Inoltre nello stesso anno venne stipulato un contratto decennale con Guglielmo Quintavalle di Castellaneta, al quale l’abate di Cava concedeva in affitto alcune terre del monastero.
Nel 1346 un diploma di Roberto Principe di Taranto illustra una leggera ripresa del casale, in quanto risulta che il priore di Casalrotto esercita il suo dominio anche su alcune chiese presenti nel territorio di Taranto, di proprietà dell’abbazia di Cava (S. Maria di Guaranci, S. Teodoro, S. Lorenzo) e sulla chiesa rupestre di S. Cesario.
Da un documento dell’archivio di Cava, apprendiamo che nel 1350 il Casale è di nuovo abitato e vi è quindi la riconferma degli antichi diritti signorili e dei poteri giurisdizionali dell’abate e del priore. La ripresa durò circa un decennio, ma già nel 1361 un frate della SS. Trinità di Trani – incaricato dal monastero di Cava di compilare un inventario di beni mobili ed immobili – annotava la presenza di soli due monaci. Il monastero era stato abbandonato ed il casale era di nuovo desolato, divenendo così un bene improduttivo mentre il patrimonio fondiario veniva usurpato dalle signorie vicine.
Nel 1616 i monaci Cavensi vendettero il territorio di Casalrotto al Marchese di Mottola Marco Antonio Caracciolo, il quale nel 1653 cedette a sua volta Casalrotto e l’intero feudo mottolese a Francesco II Caracciolo, duca di Martina.
L’attuale masseria fu costruita dai Caracciolo nel ‘700, al servizio del vasto latifondo da essi posseduto nella zona.
La necropoli medioevale di Casalrotto
A pochi passi dall’imponente masseria settecentesca di Casalrotto, tuttora abitata, quasi nel punto intermedio tra la chiesa di Sant’Angelo (a sud) e quella di Santa Margherita (a est), giacciono in prossimità dell’aia, all’ombra di secolari alberi d’ulivo, le tombe della necropoli medievale.
I corposi studi condotti da insigni archeologi e studiosi hanno consentito di tracciare una sorta di identikit del villaggio di Casalrotto, grazie soprattutto alle informazioni fornite dalla necropoli medievale. A giudicare dalla vastità dell’area su cui si estende (mt 40×15), dal numero dei resti umani e dei frammenti di ceramica medievale rinvenuti tra la terra, il cimitero rappresenta un vero e proprio forziere che ha conservato le tracce del passato, rivelando l’operosità degli abitanti, l’importanza, la devozione, le tradizioni etniche dell’insediamento rupestre di Casalrotto, nonché la povertà materiale delle famiglie che lo hanno abitato e animato.
Sono state esplorate un centinaio di tombe, tra cui parecchie di bambini, il che dimostra che il tasso di mortalità infantile era molto alto. Molte tombe presentavano all’altezza del capo del defunto una stele con croce incisa, seminterrata nel piano di calpestio, che attestava il luogo di sepoltura. In altre, invece, la croce è incisa nella fossa stessa, sempre all’altezza del capo. In nessuna tomba sono però stati trovati oggetti di ornamento personale o altro tipo di corredo funerario, in ossequio alle usanze cristiane. Le tombe hanno forma trapezoidale e rettangolare di varie dimensioni, sono ricoperte da grandi lastroni tufacei informi e sono orientate in direzione ovest-est. La testa, che poggia su di un rialzo della fossa a mo’ di cuscino, è posta ad ovest, i piedi sono ad est; il viso del defunto quindi era rivolto dove sorge il sole, che è la luce di Cristo, e dove è collocato il Paradiso, secondo la tradizione popolare medievale.
L’area cimiteriale risale ai secoli XII e XIII ed era ancora venerata ai primi del ‘600, a giudicare da una relazione datata al 1618, redatta in seguito ad una visita canonica di un rappresentante del monastero della Santissima Trinità di Cava.
Durante le 4 campagne di scavi condotte tra il 1979 ed il 1982 da un’équipe dell’Università di Lecce sono state scavate 98 tombe, in 83 delle quali sono stati ritrovati i resti di circa 140 deposizioni funerarie (32 tombe a deposizione singola e 51 a deposizione plurima).
Dal materiale osteologico recuperato si è potuto risalire allo studio di circa 125 soggetti completi. Alcune tombe sono state ritrovate vuote, probabilmente a causa di antiche manomissioni. Nella stessa area sono stati ritrovati dei pozzi-ossari in cui sono state rinvenute molte ossa depositate alla rinfusa, probabilmente per seppellire altri morti nelle stesse tombe.
Nella maggior parte dei casi il defunto veniva deposto nella tomba in posizione supina o adagiato sul fianco destro, con le braccia incrociate sul torace oppure poste lungo i fianchi. Era molto affermata l’usanza di riutilizzare la stessa tomba per i vari componenti della famiglia. Alla morte di un componente si riapriva la tomba e dello scheletro già presente si lasciava solo la testa, che era ritenuta la parte più importante del corpo, mentre le ossa del resto dello scheletro finivano negli ossari.
Grazie agli studi osteologici sono stati individuati il sesso e l’età di gran parte degli scheletri rinvenuti. Si evidenzia un alto tasso di mortalità infantile e giovanile (35%): sul totale degli scheletri ritrovati, solo il 14% era di età matura e senile, e questi ultimi solo di sesso maschile.
La statura dei maschi è di circa 1687 mm, quindi “sopra la media” del tempo, quella delle femmine (1590 mm circa) è alta rispetto ai valori tipici del periodo considerato; il tipo morfologico prevalente è quello “mediterraneo”.
Nelle tombe sono stati ritrovati pochissimi oggetti: un bottone in bronzo con perline, tre monete di Carlo I d’Angiò coniate dalla zecca di Brindisi tra il 1266 ed il 1278 ed infine una valva di pecten jacobeus con due fori per appenderla al collo, segnale di riconoscimento dei pellegrini che avevano effettuato il pellegrinaggio al celebre santuario spagnolo di San Giacomo (Santiago) di Compostela. Il Santo Apostolo probabilmente godeva di notevole culto a Casalrotto, come attesta la sua collocazione al posto del Battista in una delle Déesis della chiesa rupestre superiore di Sant’Angelo. Questo oggetto votivo, insieme ad un analogo ritrovamento ad Anglona, in Basilicata, rappresentano gli unici ex voto di questo genere ritrovati in Italia, molto più comuni invece in Spagna e Francia.