La gravina e il Villaggio rupestre di Petruscio
Questa imponente e bellissima gravina che si snoda per circa quattro chilometri da Nord a Sud, tra le più spettacolari dell’intero arco jonico, è sicuramente in grado di competere per grandiosità e fascino con i più celebrati canyon del mondo.
La forra inizia ai piedi dell’abitato mottolese, in prossimità della contrada Torlia, presso il Casino Bombone ove si concentrano le acque provenienti dalle contrade rurali di Quarato, San Vito e Pantoni. Dopo circa un chilometro si innesta sul canale principale la gravinetta di San Marco ed il burrone prosegue con alte e scoscese pareti per altri tre chilometri, fino a sfociare nella piana di Palagiano.
Sicuramente i primi insediamenti umani risalgono al periodo protostorico, come è testimoniato da frammenti vascolari presenti in alcune fovee delle grotte. Inoltre, nei dintorni della gravina sono stati ritrovati segni della più remota frequentazione umana.
In seguito, in tempi storici, la gola, riparata dai freddi venti di tramontana, ha offerto un sicuro riparo dagli invasori, a causa della voluta difficoltà di accesso (gli ingressi al villaggio sono appena sei) e ha consentito all’uomo di viverci dall’Alto Medioevo probabilmente sino all’XI-XII secolo, esercitando tra queste scoscese pareti i culti, le arti, le professioni ed i mestieri necessari alla comunità di uomini civili. La tradizione vuole infatti che il villaggio di Petruscio sia stato scavato, popolato ed abitato dai profughi scampati nell’847 alla distruzione di Mottola da parte dei Saraceni del feroce condottiero Saba, e che sia stato abbandonato dai suoi abitanti alla fine del XII secolo, in seguito alla ricostruzione della cittadina collinare dopo la sua ennesima distruzione, questa volta per mano normanna, avvenuta nel 1102.
La gravina di Petruscio offre uno spettacolo unico: sembra essere costituita da una serie di “grattacieli” di grotte a piani comunicanti fra loro. Le grotte artificiali – circa duecento, delle quali sono state finora rilevate dagli studiosi solo un centinaio – sono scavate nella roccia friabile dei due spalti della gravina per la lunghezza di circa seicento metri, e servivano come abitazioni, ripostigli, ricovero di animali e pastori. La vita sociale della comunità era ben organizzata, e si è parlato addirittura di “alveari di operosità”. Erano presenti complessi agricoli, centri di culto religioso, insediamenti abitativi, aree comuni, magazzini per i viveri, necropoli.
Sul pianoro degli spalti ai margini della gravina, in particolare ad ovest presso il vecchio tracciato della ex Statale 100, si ritrovano numerosissime tracce degli insediamenti medievali che facevano capo al grosso villaggio ipogeo. Il reperto monumentale più evidente è senza dubbio rappresentato dai resti dei muri perimetrali della Torre di Petruscio, costruzione quasi certamente pre-normanna a pianta circolare avente circa 8 metri di diametro, con le murature dello spessore di circa mt 1,40 realizzate con blocchetti di pietra calcarea rozzamente squadrati e cementati con abbondante malta, secondo le tecniche costruttive locali d’epoca longobarda e bizantina (VIII-XI secolo). Nei dintorni della Torre sono ancora leggibili i resti di mangiatoie, carraie, abbeveratoi, officine artigiane e cave, nonchè le tracce di una muraglia megalitica che potrebbe risalire al periodo preclassico. Recenti sondaggi archeologici, condotti in questa zona durante l’estate del 1996, hanno permesso il ritrovamento di moltissimi frammenti di ceramica acroma, acroma da fuoco e a bande rosse del IX-XI secolo, mentre risultano completamente assenti le tipologie più recenti di ceramiche medievali, come l’invetriata, la protomaiolica e la maiolica. I dati archeologici, unitamente al silenzio delle fonti documentarie bassomedievali, confermano l’ipotesi che il villaggio sia stato abbandonato per motivi imprecisati dai suoi numerosi abitanti poco dopo l’anno 1000. D’altra parte le fonti storiche e documentarie tacciono sulle vicende del villaggio, ed il primo accenno al “loco casalis Petrugii” risale addirittura ad una donazione del 1227.
In effetti la documentazione storica ed archivistica relativa all’insediamento medievale è estremamente povera. Un possibile riferimento al villaggio ipogeo è contenuto in una cronaca della lotta tra Ladislao e Ludovico II, ove si afferma che nel 1399 l’esercito di quest’ultimo “fuit ante Tarentum in Sancta Margharita et….ivit ed attendavit apud Petrolisum”. In epoca moderna la gravina passò a far parte dei beni della Mensa Vescovile, ed in un contratto di fitto del 1686 si accenna tra l’altro alla presenza in loco di numerosi alveari (avvucchiari).
La carenza di fonti storiche e documentarie certe ha fatto fiorire nel tempo svariate leggende ed interpretazioni, come ad esempio il presunto accampamento presso l’insediamento rupestre dell’esercito di Annibale alla fine del III secolo a. C., oppure il passaggio e la sosta tra il 42 ed il 45 d. C. dell’apostolo Pietro, che nella sua opera di evangelizzazione delle popolazioni italiche si sarebbe accompagnato a San Marco, il quale secondo la leggenda sarebbe rimasto a lungo in queste zone. Tra i toponimi della zona ritroviamo già nel 1227 la denominazione “San Marco” relativa ad un grosso affluente alla gravina maggiore, un paio di chilometri a nord del villaggio rupestre presso la contrada Torlia, sul versante del quale è scavata una grotta con resti di affreschi, tra i quali si distingue chiaramente un Cristo crocifisso.
Un’altra leggenda, alimentata dalla rilettura ottocentesca in chiave romantica della storia locale, vuole che nella prima metà dell’XI secolo Petruscio – unitamente ad altri casali dell’allora vastissimo territorio mottolese, come Palagiano, Barsento, Casaboli, Putignano – si sia ribellato al duca Rainero Magno, contestando l’elezione del fratello di questi a Vescovo della città collinare.
Estremamente più certa e documentata – anche dai graffiti lasciati un po’ ovunque dai soldati sulle grotte – è la presenza delle truppe polacche degli Alleati, durante la II Guerra Mondiale, che furono di stanza per qualche tempo nella gravina.
Questo è tutto ciò che sappiamo della “storia” di Petruscio, ovvero ben poco. Non ci resta quindi che interrogare i numerosissimi reperti archeologici, muti e silenti, che sicuramente possono ancora renderci parecchie spiegazioni sulla vita della comunità che animò il villaggio nel Medioevo.
E’ possibile accedere al villaggio ipogeo solo attraverso sei scalinate grossolanamente sbozzate – tre sul versante est ed altrettante sul versante occidentale – e parecchie altre spettacolari scalinate che fungevano da accessi e da sentieri sono scavate nella roccia, spesso costellate nel loro percorso da svariate tombe d’epoca medievale. Il canyon ospita tre chiese rupestri, prive di affreschi ma ricche di graffiti devozionali (soprattutto croci), probabilmente di epoca altomedievale, la cosiddetta Cattedrale che è la più arcaica, non orientata liturgicamente, dalla architettura notevolmente curata e rifinita; la incompiuta Chiesa dei Polacchi (il villaggio rupestre durante la II Guerra Mondiale fu usato brevemente come campo dai militari polacchi) e la Chiesa anonima del greppo Est, nonchè alcune strutture ipogee particolarmente spettacolari, come la Casa dell’Igumeno (il capo della comunità monastica) attigua alla Cattedrale, la Prigione ed il Rifugio De Rosa, cella quasi sicuramente d’origine anacoretica di accesso difficilissimo, costellata di croci graffite e utilizzata nell’800 come rifugio dall’omonimo brigante.
Per quanto riguarda l’architettura e l’urbanistica del villaggio rupestre, vi è da rilevare in generale che il posizionamento delle aperture delle grotte sulle pareti delle gravine consente al sole, che d’inverno è più basso, di entrare nell’antro e riscaldarlo, e d’estate di rimanerne fuori, mantenendolo fresco. Spesso lo scavo dell’ambiente si presentava di forma trapezoidale, per far sì che la luce del sole riuscisse a penetrare persino negli angoli più estremi della stanza. D’altra parte giova ricordare che – grazie alle proprietà fisiche della calcarenite – la temperatura che si registra all’interno delle grotte è costante in ogni stagione, intorno ai 15° C.
Le grotte riservate alle abitazioni possono essere divise in tre tipologie. Gli studiosi sostengono che le grotte più antiche dovrebbero essere quelle a pianta irregolare, con pareti semisferiche o ovali, relativamente molto alte (tre metri o più), ad ingresso irregolare (spesso aperture naturali) e col pavimento spesso sconvolto da scavi, forse di natura funeraria. Di data intermedia sono le grotte sempre a planimetria irregolare ma con ingresso modesto, ben definite nel taglio, mentre le più recenti sono le grotte a planimetria regolare, con ingressi rettangolari spesso dotati di fori per fissare l’architrave della intelaiatura delle porte, nelle quali si distinguono bene gli spazi riservati alla cucina-focolare, alle alcove, agli animali.
E’ estremamente interessante notare come molte di queste grotte artificiali più recenti presentino la caratteristica conformazione dell’unità abitativa urbana tipica per secoli dell’architettura spontanea e contadina mottolese, ovvero la cosidetta alcuov’ e camarin’. Questa cellula abitativa consiste in un unico ambiente quadrangolare posto al piano terreno, che generalmente prende luce solo dall’ingresso, e che presenta di solito verso la parete di fondo due ampie nicchie divise da un tramezzo (e spesso sormontate da un soppalco utilizzato come deposito o ulteriore alcova), ove nell’una riposavano i genitori (alcuov’) e nell’altra gli altri membri della famiglia (camarin’). Nell’ambiente comune antistante alle alcove trovavano posto il focolare, i rari mobili e – non di rado – uno spazio riservato all’asino o alla giumenta. Questa unità abitativa tipica dell’edilizia della Murgia ha costituito nei nostri centri urbani il più diffuso e popolare tipo di abitazione fino agli anni ’50 di questo secolo, rappresentando quindi evidentemente una diretta discendenza dei modelli abitativi rupestri, a loro volta sicuramente mutuati dall’edilizia urbana medievale. Basta visitare il Centro Antico di Mottola, la Schiavonia, oppure anche i quartieri popolari di fine Ottocento e del primo Novecento (Case Nuove, Annunziata) per poter verificare di persona la continuità dei modelli abitativi moderni con i prototipi edilizi del Medioevo.
Tornando così agli ambienti rupestri, rileviamo che all’esterno quasi sempre vi sono profonde cisterne “a campana” che venivano usate per raccogliere l’acqua; all’interno, sul soffitto, troviamo degli anelli intagliati a ponticello chiamati col nome di “caviglia”, attraverso i quali si lasciava passare una fune per reggere le provviste alimentari o le culle dei bambini o qualsiasi altra cosa, ed ancora sulle pareti altre caviglie per legarvi gli animali nonchè innumerevoli fori di varia grandezza, ove venivano fissati dei paletti che servivano per appendere oggetti di uso comune, nonchè per sostenere letti, giacigli, sedili e piani di lavoro.
Altra caratteristica ricorrente delle abitazioni trogloditiche è la presenza sulle pareti di nicchie e nicchiette scavate di tutte le dimensioni. E’ ancora abbastanza normale trovare negli ambienti rupestri delle fovee, profonde buche scavate nel pavimento per conservarvi il frumento ed i legumi, ed all’esterno delle grotte altri pozzetti per la raccolta e lo smaltimento delle immondizie. Le persone generalmente vivevano assieme agli animali, che venivano limitati nei movimenti all’interno delle grotte da apposite palizzate, e che contribuivano nella stagione cattiva al riscaldamento del nucleo familiare.
All’esterno delle grotte di Petruscio è abbastanza insolito ritrovare il modello insediativo della vicinanza, che è molto comune nei villaggi di origine rupestre che hanno subito in epoca moderna uno sviluppo demografico ed urbanistico tale da aver causato la evoluzione parzialmente sub divo dell’abitato (Massafra, Matera, ecc.). La vicinanza è una corte, generalmente fornita di strutture usate in comune come pozzi, cisterne, sedili, ecc., sulla quale si affacciano gli ingressi di diverse abitazioni semi-ipogee. Invece a Petruscio, ove l'”edificazione” delle case-grotta è ancora “estensiva”, i nuclei abitativi sembrano avere come norma degli spazi relativamente ampi a disposizione sui versanti della gravina, costituendo degli ortali che sicuramente, ove possibile, venivano coltivati dagli abitanti. Bisogna infatti tenere presente che, con ogni probabilità, in epoca altomedievale l’attuale aspetto lussureggiante della flora di Petruscio doveva essere notevolmente ridotto, proprio a causa dell’utilizzo delle pertinenze delle grotte-abitazioni per la coltivazione di ortaggi e per la custodia di piccoli greggi di ovini e caprini.
Come abbiamo detto, grazie alla facile modellabilità della roccia, l’acqua piovana – risorsa preziosa e indispensabile nella Murgia sitibonda – veniva incanalata in innumerevoli pozzi e cisterne posti generalmente all’esterno delle grotte, con una sofisticata ed efficiente rete di canaletti tracciati lungo il pendio roccioso. In questa zona, lontana da fiumi perenni e da laghi di acqua dolce, l’approvvigionamento idrico ha sempre costituito un grosso problema e può essere stato, con ogni probabilità, tra le cause principali dell’abbandono del villaggio rupestre. Attualmente le precipitazioni scarseggiano, soprattutto nelle stagioni estive, ed il “fiume” che scorre nella gravina di Petruscio è costituito dall’acqua depurata proveniente dall’impianto di Mottola.
Area di sosta attrezzata – Torre – Mangiatoia – Carraia
Il nostro itinerario alla scoperta dei segreti della gravina e del villaggio medioevale inizia dallo spalto ovest, presso l’area di sosta attrezzata posta di fronte all’incrocio della strada provinciale proveniente da Palagianello e da Casalrotto con il tronco comunale della ex Statale 100, che costeggia la gravina per tutta la sua lunghezza. Ci troviamo a circa 150 metri sul livello del mare, a poco meno di due chilometri dal centro abitato di Mottola. Dall’area di sosta, si percorrono circa 200 metri verso sud facendosi strada in una stentata, ma tenace ed aromatica vegetazione arbustiva di timo, pino d’Aleppo e lentisco, mentre lo sguardo può già esplorare lo spettacolo offerto dal versante orientale del burrone, traforato da centinaia di grotte ed aperture, e spaziare quindi sulla fertile pianura tarantina che si incontra all’orizzonte, ad una decina di chilometri di distanza, con l’azzurro mare Jonio. Si raggiungono così i ruderi parzialmente interrati della Torre circolare, posta ad una ventina di metri dal ciglio del burrone. Tra la antica fortificazione e lo strapiombo resta visibile per qualche centinaia di metri la carreggiata della via carraia Napoli-Lecce, segnata da canalette trasversali utili alla raccolta delle acque (un’altra carreggiata sembra essere individuabile anche ad ovest della Torre).
I resti della Torre, che ha il diametro di circa mt. 8, sono stati interessati da una prima campagna di survey archeologico nell’estate del 1996, e presentano il muro perimetrale con paramento interno ed esterno ad emplekton ad andatura circolare dello spessore di mt. 1,30-1,40,composto generalmente di piccoli conci calcarei, rozzamente squadrati e cementati con abbondante malta, secondo le tecniche costruttive locali d’epoca longobarda e bizantina. Del tutto assenti sembrano essere le tipologie più recenti di ceramiche medievali, come l’invetriata, la protomaiolica e la maiolica. La tipologia della fortificazione sembra dunque risalire al periodo longobardo-bizantino (VIII-XI secolo), epoca nella quale si affermò la planimetria circolare, sostituita nel periodo normanno da quella quadrata e da tecniche costruttive più raffinate. Un raffronto immediato si può avere in loco con la piccola torre rotonda di via Convento nel centro abitato di Mottola. La somiglianza della loro struttura e della tecnica di costruzione induce a pensare a fortificazioni “gemelle” realizzate con le tecniche usate nel Mezzogiorno d’Italia nei periodi longobardo e bizantino, sin dall’VIII secolo. Le due torri rotonde potrebbero essere state quindi edificate dopo il passaggio della città collinare in mano longobarda, sotto il regno del grande principe beneventano Arechi II, nella seconda metà del secolo VIII, oppure pochi decenni più tardi, successivamente alla riconquista bizantina di questo territorio.
Ai piedi della antica costruzione, ai margini della carreggiata stradale che costeggia il burrone, è ancora chiaramente visibile una mangiatoia-posta monolitica per equini, scavata nel tufo e con tre vasche ovoidali, delle dimensioni di mt. 3,60 x mt. 3,00.
Cisterna – Coppelle – Muraglia
Nell’ambito dei semplici ed efficienti sistemi di raccolta delle acque piovane, indispensabili alla sopravvivenza delle popolazioni neo-trogloditiche del casale, si segnala ad un centinaio di metri dalla torre, verso sud, questa arcaica cisterna triangolare – molto probabilmente usata per l’abbeveramento del bestiame – rozzamente intagliata nella calcarenite e recapito di una serie di canalette per la raccolta delle acque. Presso di essa vi sono due profondi e stretti buchi circolari, tracce di palificazioni e di steccati.
Ad una cinquantina di metri, sempre verso sud, troviamo una spianata nel banco calcarenitico ove possono agevolmente leggersi numerose e strane coppelle, la cui funzione non è ancora chiara agli studiosi. Sono formate da impronte circolari scavate nella roccia, del diametro di 30-50 cm circa, e che presentano al centro una ulteriore depressione concava del diametro di circa 10 cm. Generalmente esse sono state ritenute basi di palificazioni, ma si è fatta strada anche l’ipotesi che si trattasse degli alloggiamenti dei piccoli pali di legno che in epoca classica e medioevale costituivano gli assi dei torni a piede per la lavorazione della ceramica.
A pochi metri dall’area delle coppelle, ai margini di un banco roccioso che in antico è stato livellato, si leggono i resti di una muraglia, attualmente costituita da diciotto grandi blocchi monolitici di calcarenite, appartenenti probabilmente ad un grande recinto rettangolare che doveva servire per l’alloggiamento del bestiame di grossa taglia che non poteva essere custodito negli anfratti della gravina. Secondo alcuni studiosi questa muraglia megalitica potrebbe risalire ad epoca preclassica.
Gariga – Scalinata di accesso – Associazione botanica rupicola
Nella Terra delle Gravine la macchia mediterranea generalmente si presenta sotto forma di boscaglia, con le situazioni estreme della foresta sempreverde da una parte e della gariga dall’altra. Sullo spalto occidentale di Petruscio predomina per l’appunto quest’ultimo tipo di ambiente, che offre dal punto di vista botanico la particolarità di una ricca presenza di orchidee selvatiche, la cui breve ma affascinante fioritura si verifica in primavera. Le orchidacee la cui presenza è stata segnalata a Petruscio sono l’orchidea maggiore (orchis fusca Lk.), l’orchidea cornuta (orchis longicruris Lk.), la serapida maggiore (serapias vomeracea BRIO) ed ancora: Oprhys tarentina Golz & Reinhard; Ophrys x Marinoscii Bianco, Medagli, D’Emerico et Ruggiero; Ophrys lutea Cav. Subsp. Melena Renz.; Ophrys tenthredinifera Wild.
La monumentale scalinata d’accesso al villaggio rupestre inizia a circa 200 metri a sud della muraglia. La sua struttura è estremamente diversa dalle ben più comode e “moderne” scalinate che troviamo in ambienti rupestri ascrivibili al periodo basso-medioevale, come a Casalrotto. I gradini sono irregolari, intagliati rozzamente nel tufo o appena sbozzati, e seguono le sinuosità naturali della roccia. Sulla destra è stata risparmiata dallo scavo una parete tufacea che costituisce la protezione dallo strapiombo. Tra i rozzi scalini si insinuano e fanno capolino le specie botaniche della macchia mediterranea che riescono ad adattarsi e a vivere sulle rocce aride e cotte dal sole del canyon.
In effetti, a questo proposito, vi è da ricordare la rarità e la grande importanza naturalistica delle gravine pugliesi quale esteso sistema di biotipi rupicoli non montani. A parte le Alpi e gli Appennini, è abbastanza difficile infatti trovare altri ambienti naturali nel nostro Paese nelle quali sia così ricca la vegetazione rupicola, che a Petruscio comprende i vari tipi di sedum (parola latina che significa calmante, riferita alle proprietà medicamentose di queste erbe) – cioè la borracina rupestre (sedum rupestre L.), l’erba grassa (sedum sediforme PACE), l’erba pignola rossa (sedum litoreum G.) – ed ancora il timo (thymus capitatus L.), la santoreggia (satureja cuneifolia), la santoreggia greca (satureja graeca L.), l’issopo garganico (micromeria fruticosa L.), l’issopo meridionale (micromeria graeca BENT. Ssp. graeca), l’issopo marittimo (micromeria fruticulosa GR.), la ruta frangiata (ruta chalepensis L.), il cappero (capparis ovata Desf.), il cappero rupestre (capparis spinosa L.), la campanula pugliese (campanula versicolor Hawkins), il polipodio (polypodium vulgare L.), il capelvenere (adiantum capillus veneris L.), l’erba ruggine, la selaginella, la fillirea (phillyrea latifolia L.), il leccio (quercus ilex L.), il ginepro rosso (juniperus oxycedrus L.), il corbezzolo (arbutus unedo L.), il terebinto (pistacia terebinthus L.), l’euforbia arborea (euphorbia dendroides), l’euforbia spinosa, la parietaria (parietaria officinalis L.), l’ombelico di Venere (umbilicus rupestris Salisb.).
Cengia versante ovest – Specie botaniche dominanti
Dalla scalinata di accesso si procede obbligatoriamente verso nord lungo un pittoresco sentiero che porta alle prime grotte. La cengia si snoda in una rigogliosa vegetazione arbustiva ed arborea nella quale ritroviamo quasi tutte le specie botaniche dominanti, come il pino d’Aleppo (pinus halepensis Miller), il lentisco (pistacia lentiscus L.), il terebinto (pistacia terebinthus L.), la ginestrella (osyris alba L.), la ruta (ruta graveolens), il garofano selvatico (dianthus sylvestris Wulfen), il carrubo (ceratonia siliqua L.), l’asparago (asparagus acutifolius L.), il cisto rosso (cistus incanus L.), il cisto bianco (cistus monspeliensis L.), il cisto femmina (cistus salvifolius L.), il salvione giallo (phlomis fruticosa L.), il dondolino (coronilla emerus L.) ed il rosmarino (rosmarinus officinalis L.).
Studiando la flora del canyon ci imbattiamo in una serie di importanti “indizi” sulla storia geologica della Puglia e del Mediterraneo. Ad esempio, alcune delle varietà vegetali che si incontrano nella gravina rappresentano la flora del Terziario (da 65 a 10 milioni di anni fa) sopravvissuta alle glaciazioni, come il lentisco, il mirto (myrtus communis L.), l’oleandro (nerium oleander L.), l’albero di Giuda (cercis siliquastrum L.) ed il carrubo. Queste ultime due specie rappresentano dei veri e propri “relitti”, essendo le uniche dei loro generi che sono sopravvissute a quel periodo geologico. Le cosiddette specie paleoegeiche transadriatiche testimoniano invece il collegamento di terraferma verificatosi nel Miocene (da 26 a 12 milioni di anni fa) tra la Puglia e la penisola balcanica in un periodo di regressione marina e di quasi totale scomparsa dell’attuale mar Adriatico. Queste specie di origine balcanica sono le già citate campanula pugliese ed il salvione giallo, nonchè la salvia triloba (salvia triloba L.) che ritroviamo nella gravina, ed ancora il fragno (quercus trojana Webb), il raponzolo meridionale (asyneuma limonifolium Janchen), e la graminacea aegilops uniaristata (anche nel regno animale abbiamo alcune specie di rettili che vivono a Petruscio e che testimoniano quella fase geologica, come il colubro leopardino ed il geco di Kotschy). Altre specie vegetali pontiche di origine orientale presenti nella gravina sono il bromo (bromus erectus), l’eringio (eryngium amethistinum), l’euforbia arborea e la ruta.
Una rara specie endemica, bene rappresentata nella gravina di Petruscio, è l’elianto jonico (helianthemum jonium Lacaita), pianta erbacea dai delicati fiori gialli il cui areale è rappresentato da Puglia e Basilicata (Matera e Metaponto) e da una circoscritta zona romagnola tra Ravenna e Rimini.
Nella gravina ritroviamo tre specie quercine, la quercia di Palestina (quercus calliprinos Webb), il leccio e la roverella (quercus pubescens Willd). A livello di piante arboree è da segnalare l’estrema quantità di alberi di fico, specie presente in almeno quindici varietà: Ficus carica sativa, Ficus carica caprificus, F. San Giovanni, F. Santa Croce, F. nero selvatico, F. nero gentile (cervone), F. invernale bianco, F. invernale nero, F. vuttete, F. pacciarella, F. bianco selvatico, F. turiano, F. stagionale, F. fonola, F. srenngne.
Casa grotta – Casa dell’Igumeno – Cattedrale – Necropoli
Proseguendo per qualche decina di metri lungo la cengia dello spalto ovest cominciamo ad imbatterci nelle grotte del villaggio. La prima casa-grotta che incontriamo – ove la famiglia viveva insieme agli animali da soma – è posta al disotto della cosidetta “Casa dell’Igumeno”. La casa-grotta presenta prima dell’ingresso un’area di pertinenza attualmente parzialmente interrata, che mostra una mangiatoia ed una vasca-abbeveratoio per animali. Una croce patriarcale o di Lorena graffita sulla facciata rocciosa è posta presso la grande cisterna a campana ancora intonacata e della profondità di oltre quattro metri, recapito di una serie di canalette per la raccolta delle acque, che presenta ancora evidente il foro di alloggiamento della porticina lignea che la proteggeva. In prossimità della cisterna, proprio all’ingresso della grotta, sulla sinistra è scavata nel tufo una piccola vasca con strigaturo per lavare i panni. L’ambiente è diviso da un pilastro centrale risparmiato nello scavo in due aree ben distinte: a sinistra lo spazio riservato agli animali, a destra gli spazi utili alla famiglia ed il focolare. Nell’area riservata agli animali, sulla parete ed ancor di più sul pavimento, sono evidenti i buchi ove si impiantavano le palificazioni che formavano tre piccoli steccati utili a contenere asini di piccola taglia, e al di sopra di essi un ampio foro areatore. Questa zona presenta una mangiatoia, un nicchione per conservare la paglia, una nicchia più piccola per conservare per strumenti e finimenti e due fovee, quella più vicina all’ingresso probabilmente utile a raccogliere i liquami degli animali, quella più lontana per la conservazione delle granaglie per l’alimentazione. Sulla destra dell’ingresso abbiamo invece il focolare, ovvero la cucina a pianta semicircolare, con una ampia finestra e la canna fumaria, nella quale una serie di fori orizzontali posti a poco più di mezzo metro dal pavimento fanno supporre l’esistenza di un piano di lavoro o di un sedile. La grotta, ricca di reperti fossili, presenta ancora sulla parete destra una nicchia per oggetti e vestiario e due grandi nicchie-alcove poste di fronte all’ingresso, nelle pareti delle quali si intravedono chiaramente i fori ove alloggiavano le palificazioni che sostenevano i giacigli degli abitanti della grotta.
La cosidetta “Casa dell’Igumeno” è una struttura abitativa rupestre della lunghezza di mt. 15,00 circa, dotata di due ingressi che riproducono con finte arcate gli architravi romanici. Entrando dall’ingresso di sinistra, sulla sinistra è graffita una croce racchiusa in un solco a mandorla, ed una volta nella grotta sempre sulla sinistra troviamo il vano semisferico adibito a cucina-focolare, con una piccola finestra, la caviglia per appendere la caldaia e tracce degli originari piani di lavoro. Di fronte alla cucina si apre un vano dotato di due nicchie con quattro incavi in ciascuna per potervi collocare i capasi, recipienti tradizionali ove venivano posti i cibi a lunga conservazione. Da questo vano si ha un difficoltoso accesso ad una ulteriore grotta-deposito, posta su livello più basso. Ritornando verso gli ingressi, essi fronteggiano due grandi nicchie-alcove, mentre sulla parete destra si apre la bassa porticina di un piccolo vano, sulla cui architrave sono incise tre croci.
La cura nella escavazione, le dimensioni dell’antro, la presenza di numerose croci graffite alle pareti hanno fatto supporre agli studiosi che la Casa dell’Igumeno sia stata dunque la dimora di un personaggio di una certa importanza, molto probabilmente religioso (l’igumeno era il capo spirituale delle comunità di monaci orientali), considerando che essa è attigua alla grande chiesa rupestre denominata “Cattedrale”. La mancanza in questa abitazione di un pozzo o di una cisterna per l’indispensabile approvvigionamento idrico, nonchè la assenza di tracce di spazi riservati agli animali da soma – che invece ritroviamo abbondanti presso la casa-grotta sottostante – fa pensare che molto probabilmente le due strutture costituiscano nell’insieme un unico complesso abitativo, un vero e proprio “palazzo” di dimora di più persone e nuclei familiari, nel quale questo genere di servizi comuni erano “decentrati” al livello più basso.
A pochi passi dalla Casa dell’Igumeno troviamo la cosiddetta Cattedrale, la grande chiesa rupestre che rappresenta quasi certamente una delle più antiche cripte del comprensorio della Terra delle Gravine. La pianta della chiesa – che mostra un orientamento non liturgico con le absidi poste ad ovest, comune nelle chiese precedenti il Mille – è mononavata, divisa da due pilastri ad arcate formanti una iconostasi. L’abside centrale, che ospita un altare di tipo greco (discosto dalla parete) ed un subsellia (sedile) perimetrale, mostra alla parete tre croci graffite. L’altro abside è posto a destra del primo, mentre a sinistra vi è un arcone che delimita una grande nicchia ove sono graffite altre tre croci.
La grande chiesa rupestre non è attualmente visitabile, a causa della pericolosità di una serie di crolli che hanno interessato la parte anteriore, prospiciente all’ingresso originario. All’esterno, su una piccola spianata del banco roccioso troviamo una piccola e tipica necropoli medioevale, che presenta le caratteristiche tombe a pianta rettangolare ed a sezione trapezoidale, con la base più piccola rivolta verso l’alto.
Grotta con camino
Un’altra tipica rappresentazione della unità abitativa più “moderna” dell’abitato rupestre medioevale di Petruscio è data dalla Grotta con camino, posta ad alcune decine di metri a nord del complesso della Cattedrale. L’ingresso è squadrato, e mostra i fori che ospitavano l’architrave lignea. Priva di fovea e di cisterna, la piccola abitazione presenta sulla destra dell’ingresso un interessante camino, perfettamente conservato, con apertura semicircolare, il foro areatore, due sedili laterali e la caviglia per appendere la caldaia. Sulla parete a sinistra dell’ingresso è scavata una nicchia con la mensola che presenta leggeri incavi per custodirvi i capasi. I due vani-alcove, leggermente più rialzati, sono posti canonicamente di fronte all’ingresso.
Scalinata – Guado – Viale dei lentischi
Tornando indietro sulla cengia ovest, subito dopo la casa-grotta si può scendere verso il fondo della gravina seguendo una ripida scalinata arcaica, molto simile nella struttura a quella di accesso al villaggio ed ancora più rozzamente sbozzata nella roccia, al cui termine è posta una vasca litica, probabile abbeveratoio per gli animali da soma che riuscivano a percorrere gli impervi sentieri della gravina.
Ancora pochi passi in discesa tra gli enormi ed onnipresenti rovi, e si arriva al guado del corso d’acqua proveniente dal depuratore comunale della città di Mottola. Siamo passati così sul versante est del canyon, ove siamo subito accolti da un ombroso e suggestivo viale dei lentischi – caratterizzato anche da una rigogliosa vegetazione di acanto (acanthus mollis L.), la pianta che ispirò agli antichi Greci la tipica decorazione dell’ordine corinzio – lungo il quale si possono ammirare dei veri e propri maestosi alberi di pistacia lentiscus dell’altezza di qualche metro. Dobbiamo ricordare che questa specie vegetale, tipica della macchia mediterranea, normalmente si presenta sotto forma di arbusti. Sicuramente i lentischi assumono nella gravina di Petruscio, ed in particolare in questa zona, uno sviluppo arboreo davvero eccezionale per effetto del microclima e della costante umidità presente nel fondo della depressione, ma nella loro abnorme ed incredibile grandezza (si possono misurare tronchi della circonferenza di 80 cm.) vi potrebbe anche essere un elemento “artificiale”, essendo probabilmente il risultato di una “esplosione vegetale” avvenuta negli ultimi lustri dopo la continua potatura a cui gli arbusti sono stati periodicamente sottoposti fino a qualche decennio fa. Infatti le fascine di rami di lentisco e di altri arbusti della macchia mediterranea generalmente erano raccolte almeno una volta all’anno nelle gravine e nelle garighe ove queste piante crescevano spontaneamente e rigogliosamente, e venivano quindi utilizzate per l’alimentazione del fuoco delle grandi “car’cher” interrate ove i carcar’ul “cuocevano” per intere settimane i blocchi calcarei, secondo un antico procedimento che per secoli ha procurato alle popolazioni della zona la preziosa calce, utile all’edificazione, al decoro ed all’igiene delle abitazioni.
Muro – Area comune – 0syris alba
Risalendo il versante est lungo una stretta scalinata dalle consuete caratteristiche, si arriva alla cengia mediana dello spalto orientale, che limita a sud l’estensione dell’antico abitato. Incamminandosi verso settentrione si incontra quasi subito un elemento insolito nel contesto del villaggio rupestre, ovvero una muraglia di conci calcarei legati con abbondante malta, che presenta tipologie costruttive analoghe a quelle della Torre dello spalto occidentale. Il muro ha una altezza massima mt. 4,5, e secondo la testimonianza di alcuni studiosi alla fine dell’800 presentava ancora una apertura, che è stata interpretata come la porta di accesso alla “piazza” di Petruscio. In effetti, la zona circostante al muro è interessata da una serie di tracce di palificazioni sul banco roccioso, sedili, canalette e vasche litiche per la raccolta delle acque, aree di stazionamento degli animali da soma, e da muretti a secco per il contenimento del terreno e del sentiero, che fanno pensare ad un’area riservata alle attività comuni degli abitanti del villaggio.
Nei dintorni del muro la vegetazione è meno rigogliosa del versante opposto, ma esistono anche qui delle importanti particolarità botaniche. Su questa cengia sono state trovate in passato alcune piante di Osyris alba L. dallo sviluppo eccezionale. La ginestrella è infatti una pianta nana, che presenta generalmente una altezza media di 30-35 cm., ma che a Petruscio, proprio nella zona del muro, ha fatto registrare l’osservazione di esemplari alti 3-4 mt, con il tronco basale eccezionalmente legnificato del diametro di 4 cm. circa.
Grotta dei fossili
Continuando il cammino verso settentrione, dopo aver percorso circa 200 metri il sentiero termina presso una grotta artificiale interessata da consistenti crolli e dalla notevole erosione della tenerissima calcarenite biancastra nella quale è scavata. Sulle pareti e sul soffitto di questa Grotta dei fossili sono presenti numerosissimi fossili di ostrea edulis, pecten jacobaeus, cardium sp., arctica islandica, terebratula scillae, chlamys ecc., che sembrano risalire al Pleistocene Inferiore (Selinuntiano).
Chiesa del greppo est
Ritornando indietro e raggiungendo l’inizio della cengia mediana dello spalto orientale, si può risalire sullo spalto orientale attraverso un canalone nel quale sono scolpiti i caratteristici scalini irregolari. Una volta giunti sul bordo superiore del canyon ritroviamo un’altra chiesa rupestre del villaggio, la cosiddetta Chiesa del greppo est che presenta una poco usuale planimetria a pianta trasversale, con l’ingresso e gli ambienti orientati in direzione sud-nord, mentre i due altari sono addossati alla parete rivolta a levante, ognuno sormontato da una nicchia ove sono graffite tre croci. La chiesa, che presenta una pseudo iconostasi, è stata interessata dai crolli di un pilastro e di parte della volta. All’esterno, nell’atrio antistante, si nota la presenza di tombe violate d’epoca medievale.